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E senti come: «Time takes a cigarette puts it in your mouth. You pull on your finger, then another finger, then your cigarette». E chi? Uno suona, uno serve, uno stona: «ma lo sai che sei gialla?». Sarà la birra, sarà la luce che sbaglia, sarai pregna: di nicotina... Sarà che siedi con la gamba stesa e scansi con le stampelle sciami di pensieri: scacci pensieri come stracci da smettere, come tristi turisti molesti – nido nocivo di neuroni. Come dire, come pregare: silenzio! Cerchi calma, dopo l’ennesima colica, nella culla di un Cuba, un altro. Giro a vuoto: lo stomaco che ti manca per l’incubo che hai scelto. È il tuo lavoro! E come puoi prestare il corpo ai copioni, lo scheletro alle scene, se sei chiaramente claudicante? L’ultimo legamento sano, dei due puntelli dati – per piegare le ginocchia e rimanere a schiena dritta. Ora che paghi: la scelta di vita che non paga. Lo sai! Anche quel burocrate/politico ti sfrutta, con l’alibi della gavetta. Lo sai, ma fai finta di non saperlo. Fai finta, da sempre. Fingi. E [ti] mascheri. Figuri. E [ti] racconti una lucida bugia: vuoi crederci, nonostante... E affoghi colui che sventola un contratto che non firma. Non firmerà. Te l’ha fatto vedere, premiata profumeria, e hai corso troppo, hai dato tutto. Nulla di vero che tu possa stringere. Maledici quando hai dato l’addio, quando hai detto no al gancio, rifiutando/ripudiando ogni griglia di protezione. Quando hai barattato la soluzione con la spiegazione, ignorando la grata, ballando sul baratro. Maledetto quel quando ha deciso di. Incidere per palchi e incedere per parole. La nemica della piastrina: perché continui – a cavare cicatrici? Aumenti il numero di ulcere con un altro Aulin. Antidoto al dolore fisico. Che non puoi reggere oltre – le urla della memoria. E ritorni, in canto, nei corpi chiusi – in sala prove, carcasse di catrame e voglia di chiudere. Un pezzo. Una storia. Una porta che cancelli. «Tempo stringe – una sigaretta, la posa nel cavo della tua bocca, e levi: dito dopo dito – e dopo, poco dopo, ecco – la tua sigaretta...»
«The wall-to-wall is calling, it lingers, then you forget Oh, you’re a rock ‘n’ roll suicide You’re too old to lose it, too young to choose it And the clock waits so patiently on your song You walk past a cafe but you don’t eat when you’ve lived too long Oh, no, no, no, you’re a rock ‘n’ roll suicide». E non sai più se risate o se lacrime – per il tragico e per il comico. La tua vita è appesa/sospesa è a causa di un cibo infetto. Che ti ha corrotto, silente contrappasso: attraversi l’anoressia e quasi trapassi perché, finalmente!, torni a mangiare. Meditare e medicare: è la tua nemesi nutritiva che battezzi «il Giallo di Dio». Momento e memento: non si dimentica quando scopri che ti attacchi alla vita come un post-it che ha ancora qualcosa da dire. Proprio tu che stillavi, stratega suicida, sassi per scandali, sassi per andare a fondo. Riemerge il ricordo: «La storia di tutte le maggiori civiltà galattiche tende ad attraversare tre fasi distinte e ben riconoscibili, ovvero le fasi della Sopravvivenza, della Riflessione, della Decadenza, altrimenti dette fasi del Come, del Perché e del Dove. “La prima fase, per esempio, è caratterizzata dalla domanda ‘Come facciamo a procurarci da mangiare?’, la seconda dalla domanda ‘Perché mangiamo?’ e la terza dalla domanda ‘In quale ristorante mangiamo oggi?’». Geniale sintesi di Douglas Adams. Sono le pagine della tua pelle di paglia: qualcosa ha preso fuoco. E brucia. Chi è con te, ora? Ora che sai: non ne valeva la pena ardere per l’Arte, e stendere oltre il limite del tuo corpo e dei tuoi nervi. E quel mondo non era dorato come sognavi, come speravi. Per rincorrere quel mondo e scoprirne il volto vero, hai tolto la placca – spalancando il Tartaro. La bocca dell’Infero, dell’Infinito. «La cerchia chiama, indugia, poi si dimentica Dimentichi. Tu che [ dondola e rotola il suicida ] tu che sei: un suicida del rock ‘n’roll troppo vecchio per perderlo, troppo giovane per sceglierlo e l’Ora in attesa paziente tra le tue note passi avanti – un caffè – ma non mangi quando hai vissuto troppo a lungo [ quando ] sei un suicida del rock».
«Chev brakes are snarling as you stumble across the road But the day breaks instead so you hurry home Don’t let the sun blast your shadow Don’t let the milk float ride your mind You’re so natural – religiously unkind». E stinto il sole semina braci bianche sui cimiteri, esce la sera: adesso sei fuori. E non hai più paura. Di non essere capita. E non vuoi più farti fuori. E non porti più quel peso: dovere. Non devi più. Scrivere come si deve. Non devi più. Schiava come ti vuole. Non devi più. È solo: vivere. Come hai capito: vivere – non è “fare bene” il compito. Vivere è: non “farsi male” nel compiere. Non fare come impero impone, non farsi carico di tutte le colpe nel cuore. «I morsi della Chevy sono strida Mentre precipiti nella strada, ma il giorno spicca comunque, così cresce la corsa verso casa Non lasciare che il sole spenga la tua ombra Non lasciare che la mola di latte calchi la tua mente [ Non lasciare sia livella il come si deve come ti vuole ] Sei così naturale – devota mente insolente»
«Oh no love! You’re not alone You’re watching yourself but you’re too unfair You got your head all tangled up but if I could only make you care Oh no love! you’re not alone No matter what or who you’ve been No matter when or where you’ve seen All the knives seem to lacerate your brain I’ve had my share, I’ll help you with the pain You’re not alone». Vivo panico – la paura profuma il pericolo. E «la paura è propedeutica» e ti afferma nell’abbraccio di parole. Lui come lei. Loro. Tutti quelli presenti: ti regalano la forza che avevi finito. Parole e preghiere. Che ti fanno capire: ne vale sempre la pena. E sono con te, sono la tua famiglia proprio quelli che amano. L’Arte. Che sono: l’Arte dei sensi. Che cosa significa? Che la rete stringe maglie e magia: una coperta calda, ora che hai freddo. E congeli ogni diavolo. E rendi grazie a tutti i tuoi angeli. «No Amore! Non sei – da solo ti giudichi, ma sei troppo severo La tua testa tutta turbe E pure se solo potessi convincerti Se solo fosse degno di nota per te Amore, no! Non sei solo Non importa cosa o chi – sei stato Non importa il quando o in quale – hai visto Tutti i coltelli sembrano squarciare il tuo cranio Presa la mia parte, ti divido il dolore Non sei solo»
«Just turn on with me and you’re not alone Let’s turn on with me and you’re not alone Let’s turn on and be not alone Gimme your hands cause you’re wonderful Oh gimme your hands» e le dita non sono più tentacoli, e le dita non sono più i lividi sul collo per la gola che ti volevano, e le dita non sono più arti assassini, e le dita non sono più schiaffi secchi. Sono le dita e sono la mano, sono le dita dolci di un’unica mano di una voce unita che ubica, che ti tiene – salda e sicura – attraverso: qualunque Strada – si chiama Casa. E si solleva e ti solleva e più non si sprofonda e più non si soffoca. Spalanca: «Apriti con me e non sei solo Nudati con me e non è solitudine Tempo di ardere e non essere soli Tendimi le tue Digita con tatto ché sei tu una meraviglia Donami le dita le tue perché ti dico sei un miracolo Ora Dammi la mano».
E respira. A pieni palmi.