Gary Moore. L'ultimo traghettatore per...
...Il Blues.
Ricevere queste notizie non fa mai piacere soprattutto se il musicista che ci lascia è quello che ha caratterizzato molti aspetti del tuo percorso musicale. Gary Moore muore il 6 febbraio di quest’anno.
Non stiamo parlando di uno di quei chitarristi che ha cambiato la storia della musica e farne, postumo, un mito è certamente eccessivo e fuorviante. Certamente è stato un musicista sincero e coerente e chi l’ha visto dal vivo ha potuto appezzare soprattutto questo aspetto. Un grande chitarrista "in primis". ma non solo. Uno dei pochi che da sempre ha fatto della propria voce il bilanciato controcanto degli urli della propria chitarra. La sua carriera, partita nel lontano ’68 sotto elgida del suo padre spirituale Peter Green (a cui dedicherà un intero lavoro al culmine del suo periodo Blues) dei Fleetwood Mac, ha visto tante stagioni: dal duro rock degli esorodi col frateno compagno Phill Lynot, fino al tributo al blues che lui tanto amava da considerarsene un non degno estensore. Se si passano in rassegna i suoi dischi si sente quanto amore lui avesse per il rock ma come lui concepisse un sistema musicale dove le influenze dei generi si fondevano con naturalezza. Così dagli esperimenti dei Colosseum II di John Eiseman in odore di jazz si arriva alle cavalcate Heavy pop di ispirazione celtica del periodo Wild Frontier. Il successo arriva concretamente nel 1982 con Corridors of Power un album potente all’insegna dell’allora imperante Heavy Metal che riuscì ad imporsi sul mercato proprio per l’originalità del tocco chitarristico e della distintiva voce. Quel suono, poi immortalato nel live "We Want Moore, Live" sarà il suo marchio di fabbrica che lo designerà un fuori classe del genere, unico erede della lezione del maestro Jeff Beck in mezzo a tanti cloni di Page a Blackmore che affollavano le classifiche del periodo.
Poi la svolta che caratterizzarà gran parte del resto della sua carriera: il Blues. Come tutti i suoi predecessori inglesi Gary Moore va a scuola dai maestri del genere e, forte del suo contratto discografico con la Virgin, si presenta con un album caratterizzato dalle importanti presenze di Albert King, Albert Collins: Still Got the Blues. Un Rock Blues muscolare ma pure ispirato che farà scuola a tanti rocker che, da poco orfani per la scomparsa di Rory Gallagher e Stevie Ray Vaughan, negli anni ’90 troveranno in lui l’occasione di confrontarsi con un genere più volte dato per spacciato ma ancora vivo negli suoi album di questo musicista appassionato e studioso del genere. Le suggestioni Blues si alterneranno tra live e dischi in studio di alterno spessore. Il progetto BBM con i mostri sacri Ginger Baker e Jack Bruce ne sanciranno l’ingresso nell’olimpo del British Blues storico (benchè il ruolo di "rimpiazzo" dell’orginario Eric Clapton dei Cream non si addica per nulla al chitarrista di Belfast). L’ultima decade è un nuovo ritorno al suo blues, screziato da temi rock e ballate ispirate che però non aggiungono molto alla sua carriera già, in sè, perfetta. Oggi, saputo della dipartita, non si può che ringraziarlo per la sua musica e per quello che lascia di concreto per le future generazioni di chitarristi: un esempio, ancor più che un mito