Italian Blues Institute, Luigi Monge
Ormai ci sono abituato! Mai una volta che trovi informazioni sulle iniziative musicali che mi interessano! Eppure non si tratta di carenza di mezzi ma piuttosto di dispersioni degli stessi. Così vengo a sapere dal provvidenziale passaparola che martedì 22 marzo alle ore 21.30 ci sarebbe stato un concerto per l’inaugurazione dell’IBI (Italian Blues Institute) alla Sala Munizioniere di Palazzo Ducale.
Dietro a questa iniziativa c’è la collaborazione di due realtà genovesi di cui si parla poco: Il Museo del Jazz e Luigi Monge. Sul primo vi rimando al sito ufficiale: www.italianjazzinstitute.com, sul secondo,invece, vorrei concentrarmi maggiormente in queste righe. Luigi Monge è una piccola “perla” di Genova (che a questi esempi di eccellenza ci ha fin troppo abituato, facendocene però perdere il senso dell’effettivo valore). Insegnante, traduttore e saggista, è uno degli esponenti di maggior spicco della “cultura” Blues in Italia e vanta un innumerevole numero di collaborazioni con il mondo della cultura statunitense. Questo suo amore per la cultura afroamericana lo ha portato addirittura negli Stati Uniti a raccontare, proprio a loro, il senso di quella cultura in una serie di fortunate conferenze. La sua attività di giornalista musicale è ben testimoniata dalla rivista Il Blues ma possiamo trovare nei suoi due libri di recente uscita (Robert Johnson, I got the Blues e Howlin’ Wolf. I’m The Wolf, Arcana Editore) il segno più tangibile della sua competenza e della sua passione per questa musica.
Lo incontro a seguito al concerto di cui sopra, da lui organizzato per l’IBI, dove si sono esibiti i pilastri del Blues genovese e ligure: Paolo Bonfanti, Piero De Luca and Big Fat Mama e Guitar Ray & The Blues Gamblers. Sarà lo stesso Luigi a raccontarci come è andata.
Ciao Luigi. Italian Blues Institute. Parlami di questa iniziativa.
E’ un’iniziativa che è frutto di opposti che si attraggono: uno, realistico e positivo, è quello della mia ormai quinquennale collaborazione con il Museo del Jazz, che si è sempre dimostrato molto ricettivo nei confronti miei e delle mie proposte in ambito Blues; l’altro, altrettanto oggettivo ma negativo, è quello della situazione di stallo in cui il blues si è venuto a trovare in città, con la cronica mancanza di spazi in cui suonare e situazioni deprimenti di rivalità tra gruppi. L’Italian Blues Institute non è un’associazione vera e propria: è al momento solo un’affiliazione del Museo del Jazz, in quanto per adesso è priva di autonomia economica e legale, ma non si può escludere che se acquisirà forza e adesioni sul campo in seguito alle sue iniziative, nel futuro possa diventare un’entità indipendente, anche se sempre aperta a collaborazioni con il Museo del Jazz e con qualsiasi altra realtà interessata al blues e alle varie forme di musica e cultura afroamericane. Tutto ciò spiega la scelta del nome, che è chiara emanazione delI’Italian Jazz Institute e, anche se suona altisonante, non intende rappresentare tutto il blues italiano, ma guardare in modo concreto al presente prendendo atto delle difficoltà in cui si opera, senza peraltro rinunciare a priori a costruire un futuro più roseo.
Parliamo del concerto per l’inaugurazione dell’IBI (Italian Blues Institute).
E’ stato fantastico non solo per l’indubbia bravura dei musicisti in cartellone, ma perché si è sentito esclusivamente del blues, pur prendendo atto dell’esistenza delle sue molte sfaccettature. Senza questa presa di coscienza non si può capire la storia e l’evoluzione di questo genere musicale, e si rischia di fossilizzarsi su qualche sua branchia particolare (Chicago Blues, blues rurale, blues texano) e avere una visione distorta del fenomeno. Ma la cosa più esaltante, ieri, è stata la risposta entusiastica dei presenti, esperti e non, che hanno capito il vero spirito del Blues: quello di festeggiare e aggregare, non di dividere. La scelta dei musicisti era quasi obbligata: Paolo Bonfanti rappresenta la punta di diamante del blues genovese, la Big Fat Mama di Piero De Luca è uno dei gruppi blues più longevi del panorama italiano con oltre 30 anni di attività, e Guitar Ray & the Gamblers incarnano il blues rivierasco di livello professionale. Ciò che accomuna queste tre realtà è che hanno rappresentato ed esportato il blues ligure in tutto il mondo, suonando con artisti blues di fama internazionale.
Genova ha queste forti personalità musicali che hanno dato al Blues nostrano più di una soddisfazione, eppure il Blues genovese sembra un po’ sopito, in attesa che qualcuno lo risvegli. Questa iniziativa può essere un segnale di rinascita o rischia di essere l’ennesima attestazione di stima per quello che è stato?
E’ inutile nascondersi che il rischio c’è: questa iniziativa non vuole avere il sapore del deja vu, ma vuol far tesoro delle esperienze del passato per ampliare gli orizzonti e aprire a tutte le varie proposte che rientrino nell’ambito del blues nel senso più ampio del termine senza pregiudizi di sorta.
Che ruolo può avere tutto questo per la diffusione del blues tra i giovani?
E’ l’unico vero scopo di un’iniziativa del genere. Avvicinare un giovane al blues vuol dire farlo entrare in un mondo magico e reale al tempo stesso, fargli prendere coscienza della storia, della geografia, della lingua, in una parola della cultura che sottende il blues, che rimane in origine espressione di un popolo, ma che si evolve e amplia i propri orizzonti per avvicinarsi a, e causare fenomeni di osmosi con, altre musiche e culture. Uno degli scopi principali dell’Italian Blues Institute è quello di far salire sul palco dei giovani musicisti blues locali e nazionali.
Tu sei certamente uno degli esponenti più significativi della cultura blues in Italia (per non parlare comunque del tuo rapporto con la cultura americana nel suo insieme). Come valuti la situazione del Blues italiano e come si pone questa iniziativa dell’IBI nei confronti di un contesto nazionale?
Il blues italiano è in un limbo. Sarebbe bello poterti dire che sta benissimo, ma la realtà dei fatti è che sta solo lentamente "guarendo", e solo in alcuni campi. Il salto qualitativo dal punto di vista musicale è sotto i padiglioni auricolari di tutti quelli che hanno orecchie per sentire, anche se rimane vero il detto che non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire. Anche l’aspetto organizzativo mi sembra tenere il passo con i tempi. Festival come Rootsway, Castelsanpietro, ecc. stanno crescendo, nascono agenzie blues che solo qualche anno fa era inconcepibile che esistessero, la rivista italiana Il Blues fa uscire un DVD con i migliori gruppi italiani emergenti che si sono affrontati in finale per rappresentare l’Italia alla prima edizione dello European Blues Challenge, per la quale ho avuto l’onore di fare da giudice. Ma se veniamo agli aspetti negativi, purtroppo la lista è almeno altrettanto lunga. Innanzitutto mi sembra ci sia un grande egoismo e immobilismo di fondo in molti addetti ai lavori, che è dovuto anche alla disastrosa situazione economica generale e al deficitario investimento sulla cultura che ne consegue. Di qualsiasi cosa ci si occupi, ognuno coltiva il proprio orticello e non c’è il coraggio di rischiare più di tanto. La capacità e disponibilità alla collaborazione, a riconoscere gli errori, ad accettare la critica costruttiva, a ringraziare per un aiuto disinteressato sono scarsissime. La situazione delle case editrici e discografiche è tragica per quanto riguarda la nostra musica. Quasi tutti i CD di Blues italiano sono autoprodotti, scarseggiano le traduzioni di libri fondamentali per la comprensione del Blues, musicisti e persino addetti ai lavori leggono pochissimo, le conferenze sono rare, e se a ciò si unisce la purtroppo bassa conoscenza media della lingua inglese, e paradossalmente anche italiana, persino da parte di alcuni giornalisti e addetti ai lavori, non ci si può stupire delle molte imprecisioni che si leggono un po’ dovunque. Anche solo una recensione incomprensibile e piena di errori grammaticali innanzitutto diminuisce il valore stesso della pubblicazione in cui è inserita e può procurare una serie di effetti negativi paurosa: il CD non viene comprato, i collaboratori competenti non sono stimolati a scrivere, ecc. Tutto ciò comporta che le nuove generazioni non conoscano a sufficienza la storia del Blues e che i concerti non attraggano pubblico. Di conseguenza i locali non programmano blues, mentre quelli specializzati non se la passano bene e sono spesso costretti a pagare poco i musicisti e a chiudere o cambiare programmazione. Alcuni gestori non sono molto competenti in materia, e invece di affidarsi a chi lo è, una volta trovato il gruppo più o meno storico che attira gente, si aggrappa a quello e lo fa suonare in continuazione senza aprire ai gruppi nuovi e giovani. Alcuni locali gestiti da persone competenti, invece, soffrono di quella sindrome di competitività, mancanza di spirito collaborativo e senso dell’associazionismo di cui parlavo prima, e ciò porta a creare fazioni contrapposte. Vi è anche una scarsa serietà di certi gruppi e locali nel prenotare le date. Io insisterei molto sull’aspetto culturale del Blues. Lo dico fin troppo spesso: il Blues non è solo musica. L’Italian Blues Institute non può da solo ovviare a questi problemi, ma può offrire il proprio contributo per affrontarli e superarli. Non sarà facile riuscirci, ma ci proviamo.
La grande forza del Museo del Jazz è la grande quantità di informazioni e testimonianze che ha recuperato, anche nel campo del Blues. Come credi che questo patrimonio possa essere sfruttato in funzione del neonato Italian Blues Institute?
Partecipando alle sue varie iniziative e andando ad ascoltare i tesori nascosti negli archivi del Museo per scoprire l’eterogeneità e allo stesso tempo la matrice comune di questa musica.
Raccontaci le vostre prossime iniziative ed in particolare il coinvolgimento dei musicisti che riuscirete a portare dal vivo.
Dopo la riuscita festa di martedì scorso, il programma prevede una serata di piano blues con Ettore Ferro il 4 aprile, sempre presso la sala del Munizioniere di Palazzo Ducale (ore 21.00), e il 12 aprile un’altra delle mie ormai consuete presentazioni video al Museo del Jazz (ore 18.00) con protagonista Lightnin’ Hopkins, uno degli artisti più rappresentativi ed originali non soltanto del Blues texano, ma di tutto il genere. Sono poi in atto trattative per portare il 19 maggio al Louisiana Jazz Club il grande chitarrista americano David Evans, che ha imparato da maestri quali Bukka White e Son House. Se ci sarà l’opportunità, in estate si proverà a invitare qualche artista straniero nonostante la cronica mancanza di fondi, mentre la pausa estiva ci servirà per lavorare in vista dell’autunno prossimo su qualche altro nome di rilievo internazionale e su qualche gruppo ligure e nazionale di qualità, conosciuto o meno che sia, di cui l’Italia pullula, ma che non ha opportunità di esprimersi se non a livello locale.
Luigi Monge può essere contattato a questo indirizzo: olmi.monge@tin.it